Nell’articolo precedente abbiamo parlato della de-valorizzazione del lavoro e delle conseguenze drammatiche che comporta sulla vita di milioni di persone, in termini di precariato e di miseri salari. Ora consideriamo questo processo, spinto da un sistema economico dettato dal tecnicismo del profitto che ha bandito la bussola della redistribuzione della ricchezza, sotto il punto di vista inflattivo. Una concatenazione di cause, pandemia, interruzioni delle supply chain, cambiamento climatico, speculazioni finanziarie, conflitto russo ucraino, ha determinato una situazione molto complessa, che sta seminando il terrore sul rischio stagflazione. Dal 2021 nell’Eurozona l’inflazione ha iniziato una inesorabile marcia di crescita, salendo a maggio scorso, per la prima volta nella storia della moneta unica,all’8%, a forte distanza dalla soglia massima fissata dall’UE del 2%. Nello stesso mese, dai dati Istat, in Italia l’inflazione ha raggiunto quasi il 7% (+6,8), primo picco su base annua preceduto da una media trimestrale del 5,7% e il 6% di aprile. A scatenare questa salita concorrono, anche se in misura diversa, i prezzi energetici, alimentari, servizi e trasporti, portando un rincaro percentuale del carrello della spesa degli italiani che non si vedeva da 36 anni, quando nel 1986 salì del 7,2%. A far scattare l’allarme è l’innalzamento dell’inflazione di fondo, quella che non include i prezzi degli alimenti freschi e dell’energia, che a maggio in Italia è arrivata al 3,2% dal 2,4% di aprile.
Si aprono scenari recessivi accompagnati dal rialzo prezzi, appunto stagflazione, dominati dal circolo vizioso di bassi consumi, impossibilità per le imprese di assorbire i rincari, crediti a tassi elevati, disoccupazione.
L’approccio di Stati Uniti e Ue per fronteggiare la situazione è per il momento sostanzialmente monetarista. La Federal Reserve ha alzato il tasso di interesse di ben 0,75 punti percentuali, come non si vedeva dal 1994, nel tentativo di raffreddare l’inflazione, fiduciosa che l’economia sia abbastanza forte da riprendersi senza sostegni finanziari varati durante la fase acuta della pandemia.
A partire da luglio, invece, la Bce aumenterà il tasso di interesse di 0,25 punti percentuali e si è tenuta la porta aperta per altri aumenti dopo settembre. Secondo la Presidente Bce Lagarde, questa scelta è per arrivare alla stabilità dei prezzi e aiutare la gente. Obiettivo di medio termine è ritornare a un tasso inflattivo del 2%, ma intanto saliranno i mutui, diventerà difficile ottenere prestiti, saliranno gli interessi sul debito pubblico per i quali occorrerà trovare risorse tagliando da qualche parte. Scene già viste tante volte a scapito dei servizi pubblici, voce che incide direttamente nella distribuzione della ricchezza.
Considerata la complessità di tale inedita situazione, è legittimo chiedersi quanto possano essere adeguate ed efficaci le misure monetarie.
Negli ultimi quarant’anni la stabilità dei prezzi è stata generalmente attribuita alla conquistata indipendenza delle banche centrali, ma come osserva l’ISPI, “in realtà essa è stata piuttosto causata dall’assenza di marcati squilibri nei mercati del lavoro e dei beni”.
In altre parole, salari moderati e riduzione del potere negoziale dei lavoratori, calmierati con l’importazione di beni di consumo asiatici a basso costo, grazie al prezzo contenuto dei trasporti, soprattutto marittimi, hanno garantito la stabilità sociale. Ma intanto, i rendimenti di nuovi strumenti del risparmio, tra cui i fondi di investimento, e la liberalizzazione della finanza creativa, che con la pandemia è entrata persino nel mondo marittimo dei container strutturandone l’incremento dei noli, drenavano ingenti risorse, portando a quel sovradimensionamento dei mercati finanziari che ha generato le violente crisi economiche nel primo ventennio del nuovo secolo. L’inflazione finanziaria e immobiliare si è scaricata sui prezzi finali al consumo, travolgendo il fragile sistema retto dal sacrificio del lavoro.
Il rincaro vertiginoso di materie prime e beni intermedi indipendente dalle disponibilità reali, sta causando un’inflazione non assorbibile dal sistema produttivo, che precipita direttamente sui prezzi al consumo. Qualsiasi misura inappropriata per contenerla, oltre a estendere la povertà e allargare ulteriormente la forbice tra ricchi e poveri, rischia di penalizzare l’innovazione e gli investimenti necessari a interrompere il cambiamento climatico da inquinamento antropico del pianeta.
Sarebbe necessario declinare misure di riassorbimento degli squilibri settoriali, investimenti pubblici e privati, regolamentazione del sistema finanziario, e una politica di protezione delle fasce sociali vulnerabili, senza escludere “l’uso temporaneo di controlli di prezzi e imposte straordinarie sui redditi elevati per ridistribuire il costo della crisi”, come suggerisce l’ISPI.
Ma al momento abbiamo solo la certezza di quanto l’inflazione sia un macigno socialmente insopportabile, in un panorama salariale di per sé già molto basso.
A maggio, il FOI, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati al netto dei tabacchi, è salito al 110,6%, con un aumento del 6,8% su base annua e del 8,1% rispetto al maggio 2020, mentre per l’inflazione IPCA, indice dei prezzi armonizzato al consumo, che fornisce una misura comune comparabile a livello europeo al netto dei beni energetici importati, i calcoli Istat sono al+4,7%. Tradotto in vita reale, questi indici si materializzano in ulteriore perdita di potere d’acquisto e aumento della povertà, non solo nel precariato delle partite Iva, ma anche nell’universo dei salari regolamentati dai CCNL.
In Italia al 30 giugno 2021 il CNEL contava 985 contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL), molti dei quali pirata. Il 62% di questi è scaduto, pari a quasi 8 milioni sui 13 milioni di lavoratori privati, percentuale destinata a salire visto i 198 contratti in scadenza fino al 31 dicembre 2022.
Rinnovi non al ribasso potrebbero essere uno strumento per affrontare l’oggettiva eterogeneità degli squilibri economici nei mercati e anche nelle aziende di un medesimo settore, sui quali impattano diversamente gli effetti dell’inflazione e comportano tempi di ricostruzione variabili. Oppure in alternativa, soluzioni ponte immediate, come fatto in Germania per i chimici, che hanno rinviato le trattative sul rinnovo in autunno in cambio di un bonus una tantum di 1.400 euro a lavoratore. Dall’altra occorrerebbe non lasciare a sé stessa l’espansione irrefrenabile dei derivati nel commercio globale e l’irrompere sulla scena delle cripto valute, che sfuggono a qualsiasi controllo bancario e monetario.
Mentre l’inflazione morde e le posizioni della Bce di Lagarde non trovano posizioni unanimi tra gli economisti, in Italia Confindustria rimanda al mittente il problema, invocando una decontribuzione a carico delle casse pubbliche, senza guardare al fatto che esiste un problema strutturale: secondo l’Ocse dal 1990 ad oggi le retribuzioni medie lorde annue dei salari italiani sono diminuite di quasi il 3%(2,9%), unico caso tra tutti paesi, che invece hanno registrato incrementi consistenti tra cui Germania+33, 7% e Francia+31,1%.
Un triste epigono che dimostra quanto non fosse la scala mobile, abolita nel 1984, il male dell’economia italiana.
In tale contesto, il salario minimo nei tanti settori contraddistinti da precarietà e sfruttamento, potrebbe restituire un po’ della dignità sottratta finora al lavoro, bloccando i processi degenerativi al ribasso e creando processi di stabilità e qualificazione professionale, necessari a sostenere i cambiamenti che la digitalizzazione sta producendo in tutti i settori economici. Senza il buon lavoro non si restituiscono qualità e competitività alle produzioni e ai servizi del Paese.
g.v.