L’interdipendenza economica e climatica, sotto l’effetto di eventi traumatici ed emergenziali, è attualmente in fase di una nuova interpretazione, che sta ricomponendo l’organizzazione delle localizzazioni e della logistica delle attività. Come risulta dalle dichiarazioni della Commissione Europea, degli Stati Uniti, di diverse imprese e di molti politici, le intenzioni sarebbero quelle di realizzare l’autonomia e l’indipendenza delle catene di fornitura dei mercati di consumo occidentali.
Uno dei risultati più evidenti di tale tentativo è la spinta verso una nuova organizzazione dei processi globalizzati, che sta sostenendo la vivace crescita delle Free Zone (FZ). Dai dati elaborati recentemente da SMR, le FZ che a livello globale si distribuiscono in 145 paesi, hanno superato le 7.000 unità, con un trend in accelerazione 2018-2022 di oltre il 23%.
Mentre l’Italia si organizza verso l’operatività di ZES e ZLS, i porti del Mediterraneo delle FZ già funzionanti da tempo, evidenziano nell’arco temporale 2015-2021 maggiori connessioni con le altre aree del mondo, rispetto a quelli italiani (fonte SMR). Questo dato potrebbe essere sufficiente per motivare ad ampliare e approfondire l’analisi sul rapporto tra globalizzazione e reshoring.
L’aspetto che meriterebbe di essere scandagliato è la natura stessa del reshoring, che non sembra compromettere i traffici globalizzati dei porti, tanto più che le forniture di materie prime non sono regionalizzabili. In questo caso il reshoring/nearshoring potrebbe conformarsi non tanto come un ritorno/avvicinamento a casa, quanto piuttosto una multi localizzazione delle imprese e dei settori, per garantirsi maggiori alternative in caso di interruzione delle catene e per mantenere costantemente alimentati i mercati di maggior consumo, che non si limitano al mero occidente, ma hanno il loro nucleo principale nelle megalopoli e grandi città metropolitane, sparse in tutto il mondo.
In questo scenario, si evidenzia anche un nuovo peso dell’intervento pubblico nel libero mercato, che per “il ritorno a casa” occidentale sta investendo miliardi di euro in incentivazioni, in termini di sgravi fiscali e agevolazioni di ogni tipo, a discapito delle spese cosiddette sociali. L’intendimento è tutelare i mercati di consumo interno e, di conseguenza, il reddito derivante dalla occupazione così prodotta, che tuttavia, al netto delle nuove professionalità ancora in fase di costruzione, è subalterna alla forte tendenza all’automazione, che in qualche modo compensa anche i costi di disinvestimento all’estero. La Banca Mondiale ha calcolato che il reshoring potrebbe aggiungere altri 52 milioni di persone nella fascia della povertà estrema, mentre alcuni osservatori temono che la formazione di blocchi regionali, guidati da Cina, Stati Uniti e Unione Europea, marginalizzi e separi dalle catene del valore globali il resto del mondo più povero in termini di sviluppo economico. La prospettiva è di interminabili ondate migratorie.
Nella classifica TOP10 del reshoring europeo, l’Italia è al secondo posto con 171 casi, dopo la Francia che ne ha contati 174, seguita da Regno Unito (122), Germania (93), Spagna (58), Svezia (56), Danimarca (33), Paesi Bassi (24), Finlandia (21), e Norvegia (20).
Guardando all’interno delle dinamiche del reshoring italiano, sempre da fonte SMR, per il 46% proviene dall’Europa – Europa dell’Est e Russia (21%) + Europa Occidentale (25%) – e per il 43% da Cina (36%) e il resto dell’Asia. Per il 38% dei casi, il reshoring italiano riguarda il settore abbigliamento e pelle, e per il 12% a parità, rispettivamente quello di macchinari e quello dei prodotti elettrici.
Il fatto che in maggior parte le ricollocazioni in Italia coinvolgano un mercato di largo consumo quale quello della moda, lascia trasparire alcune perplessità. A livello globale, la moda vale 2.400 miliardi di dollari all’anno, impiega circa 300 milioni di addetti, è il secondo consumatore di acqua al mondo per oltre 93 miliardi di metri cubi all’anno, come ha stimato la Conferenza delle Nazioni Unite, produce l’8% delle emissioni e consuma il 20% delle sostanze chimiche prodotte. In tale comparto, la fast fashion ha la fetta maggiore, l’abbigliamento venduto a prezzi bassi e di scarsa qualità.
Il fenomeno riguarda soprattutto i mercati occidentali, ma ha un risvolto globalizzato impressionante, che coinvolge gli scarti e i rifiuti, in termini di riutilizzo e di smaltimento, che non può avvenire nelle normali discariche per il loro contenuto chimico. Da uno studio di France Press, i milioni di capi, tra usati e invenduti, che si accumulano di anno in anno, sono raccolti e spediti in Cina e Bangladesh, dove subiscono una prima selezione, per poi proseguire verso il Cile, nel porto di Iquique, gate di uno dei principali poli internazionali di confluenza dei rifiuti prodotti dall’abbigliamento. Qui dopo un ulteriore scarto, che seleziona la merce ancora vendibile sul mercato di seconda mano dell’America Latina, lo scarto dello scarto viene gettato in uno dei 45 punti clandestini nel deserto di Acatana nel Nord del paese, espandendo a cielo aperto almeno 500.000 tonnellate di rifiuti tossici, che periodicamente vengono incendiati, producendo ulteriori emissioni nell’atmosfera e soffocando di fumi la cittadina di Alto Hospicio.
Parallelamente in Africa, un altro punto mondiale di smaltimento degli scarti prodotti dall’abbigliamento mordi e fuggi, è la spiaggia di Korle-Gonno ad Accra, capitale del Ghana, dove vengono accumulate montagne di stracci che affondano nella sabbia fino a due metri di profondità. Il Ghana è uno dei maggiori importatori al mondo di abiti usati.
Intanto, settori altamente specializzati della metalmeccanica di largo consumo, in primis l’automotive, restano saldamente in Cina e nel suo sistema di produzione regionalizzato, che nel frattempo si è fortemente specializzato, anche in termini di manodopera qualificata, nella produzione di auto elettriche, tanto da spingere gli armatori roro ad allargare la capacità delle flotte per la domanda globalizzata di questa merce.
Tornando in Italia, il Centro Studi di Confindustria nella sua analisi di fine anno, offre un quadro prossimo alla stagnazione. Tutti i settori produttivi sono in estremo rallentamento, incluso l’edilizia per la fine dei bonus per le ristrutturazioni e il rincaro delle materie prime causato dall’inflazione. Solo i servizi, in cui ricadono porti e logistica, tengono ancora.
Non sarebbe ora di pensare a modelli economici innovativi di rilancio, basati su attività e traffici sani e equi? (g.v.)