Il quadro nell’ultimo mese si è evoluto seguendo i temi seguenti:
- I tassi in Europa e USA
La ECB sta proseguendo nel taglio dei tassi, come annunciato: il 17 ottobre sono stati abbassati di altri 25 bps (ora al 3.25%); Christine Lagarde ha ribadito la buona riuscita della strategia nell’ottica di “rompere il collo all’inflazione” (cit.).
Da notare però che in Europa l’inflazione base (che include cibo ed energia, le componenti più volatili) è ormai al 1.7% e che la situazione dei consumi europei e degli investimenti è in forte contrazione da un trimestre.
Dal “soft landing” che si materializza, gli analisti traggono alcune conclusioni:
le politiche monetarie di quantitative easing (acquisti di titoli governativi sui mercati da parte delle banche centrali) e quantitative tightening (vendita di titoli sul mercato) si stanno rivelando alquanto ridondanti. Ovvero, troppa liquidità immessa artificialmente corrisponde a indicatori spuri di inflazione e consumi che necessitano di ulteriori interventi sui tassi per frenare l’economia.
Ora che nei paesi occidentali l’inflazione pare rientrata, andrebbe analizzato il costo della (comune) strategia in termini di minore PIL, sulle due sponde dell’Atlantico, partendo dal presupposto che l’inflazione in Usa è stata trainata dalla domanda mentre invece in Europa è stata trainata dall’offerta (prezzi dell’energia).
La strategia delle banche centrali è stata la stessa nei due casi, seppure le cause inflattive da domare fossero diametralmente opposte.
- La Cina e il suo rallentamento macro
Le rilevazioni di questo trimestre sono leggermente migliorate: la produzione industriale è dichiarata al +5.4% yoy nell’ultima rilevazione trimestrale, ma il target del 5% di crescita per il 2024 probabilmente non verrà raggiunto con i parametri attuali.
Il governo ha varato misure di stimolo all’economia che inizialmente hanno incrementato la fiducia dei mercati facendo salire i valori borsistici; d’altra parte, sarebbero necessarie misure di ristrutturazione strutturale del modello economico, nell’ottica di aumentare la fiducia interna e soprattutto di aumentare il consumo interno.
La Cina dovrebbe muoversi nella direzione di un minore focus all’export, un maggiore investimento in politiche sociali e pensionistiche, e una riforma del settore bancario e della proprietà immobiliare.
Il 20 ottobre la Banca Popolare Cinese (PBoC) ha deciso un taglio dei tassi di 0.25%, portando i tassi di prestito a 1 anno a 3.10% e a 3.60% sulla scadenza a 5 anni.
Negli ultimi anni il meccanismo della globalizzazione si è inceppato se non invertito, provocando una diminuzione ingente degli scambi e dei flussi dei capitali a livello mondiale. Si stima un incremento del 60% in media dei ricavi da tariffe e altre misure protezionistiche rispetto agli anni pre-pandemici. La crescita mondiale in termini di PIL, ad esclusione degli USA, ne ha sofferto.
In questo quadro, oltre alla già nota difficoltà in cui versa l’industria europea da tempo, le politiche industriali EU sarebbero in grado di reagire a barriere tariffarie americane in caso di vittoria di Trump?
Se il nuovo Presidente varasse misure protezionistiche verso la Cina più aggressive, e la Cina volesse riversare il proprio surplus produttivo in Europa, saremmo in grado di reagire? Sta emergendo finalmente un dibattito su come si dovrebbe comportare la politica economica dell’Europa in caso di relazioni Cina-USA in ulteriore deterioramento.
- La campagna elettorale americana & il deficit
Quali effetti economici potrebbero avere le due strategie di governo Trump e Harris?
Questa è la domanda fondamentale alla quale le Borse stanno cercando di rispondere per posizionarsi nei due possibili scenari.
I cavalli di battaglia di Trump sono: l’estensione degli sgravi fiscali del Jobs Act del 2017; le esenzioni fiscali sugli straordinari, sulla social security, l’aumento delle tariffe, e l’aumento della produzione di energia. Il tutto porterebbe secondo le stime ad un incremento del debito nel range 4 – 5.8 trilioni di dollari.
Il budget della candidata Harris invece prevede: gli sgravi fiscali del Jobs Act, crediti fiscali a incentivo della natalità, sussidi vari, e un aumento della corporate tax e della tassa sulle plusvalenze. Il risultato in questo caso sarebbe un aumento del debito stimato nel range tra 1 e 2 trilioni di dollari su 10 anni.
Per le Borse e per gli operatori del mercato finanziario al momento sembra più vantaggioso il programma elettorale repubblicano.
Dal lato dei tassi di cambio del dollaro, Trump e Vance hanno dichiarato di volere un cambio più debole. Al contrario però i dazi in generale tendono a rafforzare la valuta del paese che li impone, e non ad indebolirla. Si tratterebbe insomma di una strategia di mediazione da parte di Trump e Vance, che vorrebbero controbilanciare l’apprezzamento da dazi con il deprezzamento auspicato a parole.
In caso di vittoria di Trump la FED probabilmente taglierà i tassi meno che in caso di vittoria di Kamala Harris e anche questo sarebbe un fattore favorevole all’apprezzamento del dollaro. I rendimenti della curva potrebbero appiattirsi.
In caso di vittoria democratica invece la curva dei tassi potrebbe diventare molto più pendente.
Domande a cui comunque non si può rispondere con chiarezza sono quelle relative all’ampiezza e all’impatto delle tariffe, all’approccio verso la Nato e le istituzioni europee, e soprattutto l’effettiva intenzione di proseguire con il programma elettorale da parte di entrambi i potenziali vincitori. Rimane chiaro però un atteggiamento pro-crescita, che sui mercati finanziari favorirà i comparti azionari rispetto a quelli obbligazionari.
A cura di Donau Sviluppo S.r.l. – (Fonti: Financial Times, Bloomberg.com, Ecb.europa.eu, Federalreserve.gov, Unicredit research, Morgan Stanley Research, JPM Research, CNBC.com, Goldman Sachs Research, Kairospartners.com, Zeygos Research&Consulting, ZeroHedge.com, Eurostat, Nasdaq.com, Reuters.com, euronews.com, TradingView)