Lo scorso agosto, a Johannesburg si è tenuto il 15° summit dei BRICS, la piattaforma intergovernativa di cooperazione informale costituita nel 2009 da Brasile, Russia, India e Cina e allargatasi al Sudafrica l’anno successivo. La principale novità di questo anno è stata l’inaugurazione di un processo di espansione, che di fatto nello scenario internazionale rende meno assertivo e molto più reale il peso del gruppo. Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran hanno ricevuto l’invito formale ad entrare nei Brics, con passaggio a membri effettivi dal 1° gennaio dell’anno prossimo. La scelta è avvenuta in una rosa di 20 paesi formalmente richiedenti, dopo intensi negoziati tra i cinque membri per raggiungere l’unanimità, condizione fondamentale del meccanismo decisionale del gruppo.
Dal 1° gennaio il peso globale dei Brics raddoppierà, raggiungendo il 36% del Pil mondiale e 3,7 miliardi di persone, circa il 47% della popolazione mondiale, che contrariamente al declino demografico occidentale, è pullulante di giovani sempre più istruiti.
L’espansione attesta un passaggio storico verso nuovi equilibri internazionali, in cui le medie potenze si dotano di capacità negoziali, in una logica molto diversa da quella di guerra fredda contro l’Occidente.
Come sottolineato dal presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, nelle conclusioni del summit, i Brics intendono essere paladini dei bisogni e delle preoccupazioni dei popoli del sud globale, per una crescita economica benefica, lo sviluppo sostenibile e una riforma del sistema multilaterale affinché diventi inclusivo. Gli squilibri di rappresentanza e di voto esistenti negli organismi internazionali sono profondi, e la richiesta di un cambiamento in direzione di una equa multipolarità diventa ogni giorno più difficile da ignorare. Il centro di gravità dell’economia globale si sta velocemente spostando dall’Atlantico verso l’Asia passando per la Turchia, trascinando in una crisi irreversibile i capisaldi usciti dalla guerra fredda, in primis il capitalismo democratico e la liberalizzazione del commercio, con cui per decenni gli Stati Uniti e i suoi stretti alleati, attraverso organismi come FMI, WTO e ONU, hanno disposto l’ordine internazionale. Uno dei grandi catalizzatori del cambiamento è la Cina, a un passo dal diventare prima economia mondiale, che sta diffondendo il partenariato strategico, alternativo alle logiche di alleanza militare come la NATO, mentre l’Europa si sta sempre più ritagliando un ruolo conservatore dello status quo creato dall’Occidente.
Da parte Brics, non è un ripudio, ma una ripresa non ideologica dei valori universali, sospinta dalla crescita di influenza delle medie potenze e degli allineamenti regionali, che sta determinando un panorama globale delle alleanze sempre più basato sull’autonomia delle scelte e sulla negoziazione inclusiva. Del resto, il blocco stesso, che nasce come accordo economico internazionale, è il risultato diretto del cambiamento nei rapporti di peso tra gli Stati, che per la frammentazione e la polarizzazione politica nel mondo, inevitabilmente si estende sempre più anche alla sfera geopolitica. I Brics sui temi di comune interesse sono coesi, pur rappresentando economie diverse e governi divergenti in tema di politica estera, con profonde differenze, tra cui quelle di Russia e Iran, che affrontano pesantissime sanzioni economiche occidentali e un isolamento che per l’Iran dura da 40 anni, aggravato dalla lunga rivalità con l’Arabia Saudita, che tuttavia, grazie alla mediazione della Cina, a marzo scorso è giunta a un punto e a capo con un accordo storico che ristabilisce le relazioni reciproche tra i due paesi. Persistono i contenziosi di confine tra Cina e India, e anche il rapporto con Stati Uniti ed Europa è variegato, con India, Sudafrica, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti che ne coltivano stretti legami. Tuttavia, l’insieme di tutte queste differenze non impedisce al blocco di raggiungere posizioni unanimi su temi di grande rilevanza internazionale, come la guerra in Ucraina, su cui i Brics chiedono la risoluzione pacifica del conflitto attraverso il dialogo e la diplomazia, né di prendere iniziative comuni in campo economico e finanziario. Uno dei principali obiettivi è la riduzione della dipendenza dal dollaro, e in questo solco nel 2015 i Brics istituirono la New Development Bank (NDB), in alternativa al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale (BM). Le riforme di questi come di altri organismi come l’ONU sono bloccate da anni dai paesi del G7, perpetrando a sotto rappresentare, se non ignorare, i paesi emergenti, come la Cina che, pur producendo il 16% del PIL mondiale pesa in BM solo il 5%. La NDB, che finanzia progetti e soluzioni su misura, sta progressivamente aumentando il volume di prestiti in valute locali, riducendo la vulnerabilità dei Brics alle fluttuazioni del tasso di cambio del dollaro. Finora ha approvato finanziamenti del valore complessivo in dollari di quasi 33 miliardi, di cui, da fonte Reuters, per il momento circa un terzo in valute locali, spalmati su 96 progetti che spaziano dalle infrastrutture all’energia, all’acqua.
Da fonte ufficiale, la politica monetaria dei Brics non è di soppiantare i sistemi di pagamento internazionali come lo SWIFT, ma di aggiungerne parallelamente un altro che consenta l’utilizzo delle valute locali nel commercio internazionale e nelle transazioni finanziarie. Gli scambi in valute locali sono già una realtà tra i Brics e i paesi partner, e anche questo summit li ha incoraggiati, insieme al rafforzamento delle reti bancarie di corrispondenza, mentre nell’agenda del summit venturo è già previsto l’esame delle valute locali, gli strumenti di pagamento e le piattaforme. L’ingresso nel gruppo dei principali esportatori mondiali oil & gas, Arabia Saudita, Iran e Emirati Arabi Uniti potrà essere un ulteriore fattore di incoraggiamento all’uso di valute locali negli interscambi. Sebbene gli impegni assunti dai Brics non siano mai vincolanti, l’integrazione economica e finanziaria tra loro è sempre più evidente, e sul piano energetico e minerario profilano una forte influenza, detenendo quote mondiali enormi in riserve, produzione e consumo, tra cui circa la metà delle riserve petrolifere globali e il 42% delle forniture di greggio, che nonostante la crisi climatica resta tra le principali fonti energetiche.
Tra quasi 40 paesi, molti dei quali partner anche degli Stati Uniti, che finora hanno espresso interesse a entrare nei Brics, dal 2018 c’è anche la Turchia, paese NATO e centro di gravità dell’economia globale. Alcuni osservatori ritengono molto prossima la domanda turca di adesione formale al gruppo, con ratifica nel summit 2024, che si terrà in Russia nella capitale del Tatarstan, Kazan, dove circa il 50% della popolazione è di etnia turca. Questa repubblica della Federazione Russa attira circa il 25% di tutti gli investimenti turchi in Russia, e in coincidenza del summit Putin ha in programma di presentare la nuova ferrovia di alta velocità Mosca-Kazan, costruita con investimenti e tecnologie cinesi, che ridurrà il tempo di viaggio tra le due capitali da 12 a 3,5 ore.
Una eventuale adesione al Brics, darà accesso alla Turchia ai prestiti NDB per nuovi progetti di sviluppo delle sue esportazioni, ma soprattutto conclamerà rapporti già molto stretti, stimolando ulteriore integrazione. Pochi mesi fa ha concordato un deposito di 5 miliardi di dollari nella banca centrale turca con l’Arabia Saudita e chiuso accordi di investimento con gli Emirati Arabi Uniti per oltre 50 miliardi di dollari. Nel 2022 l’interscambio commerciale con i paesi Brics ha registrato una crescita generalizzata, con la sola eccezione dell’Etiopia, fermo da tre anni a circa 400 milioni di dollari, a causa della guerra del Tigrè. Tra i casi più rilevanti, il raddoppio del commercio bilaterale con l’Argentina, con la cifra record di 1,18 miliardi di dollari; la crescita di oltre il 50% con l’India, arrivando a 10,71 miliardi di dollari; più del raddoppio con la Russia arrivando a 62 miliardi di dollari; e infine un aumento del 40% a 18,9 miliardi di dollari dell’interscambio non petrolifero con gli Emirati Arabi Uniti, che entro il 2027 è previsto raggiunga 40 miliardi di dollari grazie all’accordo di commercio globale CEPA, firmato tra i due lo scorso marzo. La Cina, invece, con la quale la Turchia nel 2022 ha avuto un interscambio prevalentemente in import di quasi 39 miliardi dollari (+22%), si è impegnata ad aumentare l’import turco e consentire pagamenti in valuta turca.
Questi dati stridono con il dimagrimento dei traffici con i paesi extra UE registrati dai porti europei nel primo semestre 2023, tutti in rosso. Il dinamismo delle economie emergenti dovrebbe suggerire a paesi come l’Italia di non stare a guardare, ma di promuovere politiche economiche di integrazione con queste nuove realtà. Ne sia monito metaforico il lancio effettuato dall’India, con successo e per la prima volta, di due robot sul polo sud della luna, che Narendra Modi ha seguito in diretta da Johannesburg durante il summit Brics. (Giovanna Visco)