Bussola: overview dello scenario macroeconomico

Investimenti, crescita, tariffe e tassi di cambio

Le dichiarazioni di Trump sul lasciare che l’Europa si difenda da sola, spendendo sul proprio territorio finanziamenti raccolti attraverso massicce emissioni di debito comune, stanno dando una portentosa scossa all’economia del vecchio continente.

La Germania ha fatto un dietrofront a 180 gradi con l’approvazione di una modifica costituzionale per permettere spese militari e investimenti pubblici (deficit di bilancio) “no limits”. Macron si è mostrato aperto ad ampliare la protezione nucleare a tutta Europa (non gratis, s’intende). Il Canada sta facendo avances spinte a UK e Francia per rinsaldare le relazioni economiche e gli accordi di sicurezza. La Commissione europea ha proposto un’iniziativa da 800 miliardi di euro per la difesa nei prossimi cinque anni, di cui 650 miliardi di euro di spese nazionali per la difesa da escludere dal budget fiscale e 150 miliardi di euro disponibili dalle risorse UE esistenti per prestiti ai bilanci nazionali per le spese militari. I numeri ovviamente sono indicativi ma danno un’indicazione del cambiamento storico che sta avvenendo in Europa e che potrebbe portare a una crescita sostenuta nei prossimi 2-3 anni. Di conseguenza le Borse europee da inizio anno hanno performato molto bene.

Nel frattempo, negli Stati Uniti, la Fed ha rivisto al ribasso le sue previsioni sul PIL per il 2025, mentre ha aumentato le sue previsioni sull’inflazione, secondo Jerome Powell soprattutto a causa dei dazi di Trump e le relative ritorsioni dei Paesi colpiti (si pensi solo alla Cina e ai chip venduti da Nvidia). Il rischio di stagflazione (cioè, crescita del PIL bassa, accompagnata da inflazione) negli Stati Uniti è diventato il principale argomento di discussione. L’aumento dell’incertezza pesa sulla crescita, e la reazione di politica monetaria sarà quella di abbassare il costo del denaro e migliorare la fiducia dei consumatori americani, che è in discesa. Questo potrà accadere quando le attese di recessione saranno aumentate e l’inflazione sarà ritenuta in discesa.

La Borsa USA ha perso lo slancio che l’aveva caratterizzata negli ultimi tempi; da inizio 2025 l’indice tedesco DAX ha guadagnato il 15% mentre S&P500 ha perso il 2%.

La narrazione ufficiale descrive semplicemente una riallocazione della ricchezza su attivi trascurati nell’ultimo periodo o sui quali per lungo tempo ha gravato una situazione specifica sfavorevole: si pensi all’Europa, poco dinamica a causa del mercato del lavoro non flessibile, della bassa innovazione su tecnologie ad alto valore aggiunto, delle poche risorse energetiche disponibili e della frammentazione politica/decisionale. Anche la Cina, che dopo il Covid non era riuscita a riprendere il ruolo di fabbrica del mondo e tornare sui livelli di surplus commerciale e crescita degli ultimi venti anni, è ritornata tra le destinazioni preferite dagli investitori.

Gli investitori insomma stanno realizzando parte dei profitti accumulati sui titoli americani in portafoglio, spinti dall’aspettativa di qualche ulteriore ribasso. Pur osservando i cambiamenti nelle dinamiche macroeconomiche mondiali l’aspettativa sarebbe di una ripresa soddisfacente dei corsi azionari nei prossimi trimestri (probabilmente il terzo e quarto trimestre del 2025), con tassi dei Treasuries americani in discesa dal 4.39% attuale (e prezzi dei Treasuries quindi in aumento).

D’altra parte, però, alcuni analisti più pessimisti ritengono che non si tratti solo di una bolla che si sta sgonfiando. Ritengono bensì che all’orizzonte inizino a vedersi le ombre della possibile perdita di ruolo da parte del dollaro.

Larry Summers, economista ex direttore del Consiglio Economico Nazionale, Stephen Miran economista americano ex consulente del Tesoro americano, e Martin Wolf, eccellenza del Financial Times, hanno recentemente illustrato come l’indebolimento dello status di valuta di riserva innescherebbe una spirale di svalutazione progressiva del dollaro e perdita di valore degli asset americani.

Il dollaro è stato storicamente sopravvalutato, cosa che ha impattato pesantemente sul settore manifatturiero americano (se una valuta è forte, gli esportatori del Paese subiscono uno svantaggio competitivo a causa dei propri prodotti che risultano più costosi all’estero), e ha beneficiato invece il settore finanziario (un investimento in dollari vale di più, se il dollaro si apprezza, a parità di altri fattori).

Ma quali sono i requisiti per essere una valuta di riserva?

– deve essere ritenuta sicura, ovvero poco fluttuante, o preferibilmente fluttuante all’insù: quindi deve essere emessa da una Banca Centrale affidabile, di un Paese geograficamente grande ed economicamente in surplus.

– deve essere liquida, ovvero accettata universalmente in conversione con altre valute.

Il Dollaro Americano risponde a questi requisiti. I Paesi Emergenti scelgono di proteggersi da possibili crisi finanziarie acquistando dollari; altri Paesi scelgono di investire il loro alto risparmio su valute che ritengono molto sicure; altri Paesi ancora, dato il loro modello economico basato sull’export verso gli USA, accumulano un surplus di riserve in dollari.

Alla fine, la domanda di titoli americani e di riserve in valuta estera ha creato una sopravvalutazione del dollaro rispetto alla bilancia dei pagamenti, e quindi un deficit di conto corrente in America.

Si è creato un trade-off per gli USA: da un lato la possibilità di finanziamenti a buon prezzo e potenza finanziaria globale, dall’altro un indebolimento dei settori industriali/manifatturieri domestici. Come salvare capra e cavolo? Secondo Stephen Miran, si tratta di ritornare ad un sistema di gestione dei tassi di cambio.

Trump probabilmente ambisce alla svalutazione del dollaro, che potrebbe essere realizzata ad esempio:

  • attraverso politiche fiscali restrittive e politiche monetarie espansive, ma questa combinazione cozza con il programma di tagli delle imposte sui redditi che ha già promesso.
  • forzando la Federal Reserve a far scendere il valore del dollaro, ma questa strada avrebbe effetti disastrosi sull’inflazione. Il rischio sarebbe quello di ulteriore massiccia emissione di debito americano da parte del Tesoro, di inflazione in risalita e conseguenti problemi sociali.
  • applicando tariffe rilevanti.

Da sole, le tariffe farebbero salire ulteriormente il valore del dollaro. Diverso invece se alle tariffe e alla gestione del tasso di cambio si affiancassero accordi internazionali: di importanza dirimente saranno i dettagli di cosiddetti “accordi di Mar-a-Lago”.

Emergono due aspetti fondamentali. Uno è l’aspetto della credibilità per il lungo termine degli “accordi”. Il secondo è l’aspetto economico: viene immaginato uno scenario in cui le Banche Centrali dei Paesi “amici” accettino di convertire le proprie obbligazioni USA, attualmente con scadenza a breve termine, in obbligazioni a lunghissimo termine (a 100 anni) o irredimibili. Ciò permetterebbe agli USA di reiterare il modus operandi caratterizzato da politiche monetarie e fiscali entrambe espansive.

Per appianare il deficit di cassa senza sacrificare gli investimenti, gli USA dovrebbero aumentare il tasso di risparmio del 3% del Pil almeno ($850bn). In questo modo riuscirebbero anche a ridurre a metà il deficit fiscale. Portando il calcolo all’estremo, è stato stimato che una tariffa del 50% su qualsiasi importazione potrebbe generare $780bn all’anno.

A cura di Donau Sviluppo S.r.l. – (Fonti: “A user’s guide to Restructuring the Global Trading System” di Stephen Miran per Hudson Bay Capital, Financial Times, CNBC.com, Reuters.com, Bloomberg.com, Unicredit research, Morgan Stanley Research, JPM Research, Goldman Sachs Research, Kairospartners.com, Zeygos Research&Consulting)