Una decina di giorni fa all’Università Ca’ Foscari di Venezia il Presidente dell’Autorità Portuale di Trieste Zeno D’Agostino si rivolgeva a un uditorio ben qualificato con la frase: “il futuro del porto non è il porto”. Qualcuno potrà aver inteso all’inizio che D’Agostino ama giocare coi paradossi, con un pizzico di snobismo. Invece crediamo che alla fine l’uditorio avrà capito che non si tratta di giocare con le parole ma di guardare le cose, finalmente, con occhi un po’ diversi. Chiunque frequenta il nostro ambiente da un bel po’ difficilmente potrà negare che nei convegni che si susseguono con una frequenza bulimica ormai da trent’anni si sentono sempre i soliti discorsi, meglio, si guarda alla realtà portuale sempre con lo stesso schema mentale, sempre con gli stessi metri quadri di banchina che si allungano, con gli stessi Teu che si movimentano, con le stesse navi che s’ingrandiscono. La ripetizione all’infinito di sequenze logiche dove la parola “innovazione” diventa una litania.
Invece per fare vera innovazione bisogna cambiare paradigma. Quel che D’Agostino voleva dire con la frase “il futuro del porto non è nel porto” si riferiva alla necessità di cambiare schema di ragionamento, quando pensiamo non a quel che succede in un porto, ma a quel che può succedere. Nella fattispecie D’Agostino ci ricorda, per esempio, che il mare non è solo una via di trasporto di merci, ma sempre più di dati e dunque un porto può ospitare uno dei terminali delle vie di comunicazione digitale e diventare un hub informatico e acquistare una centralità forse maggiore di quella che gli può assicurare un hub di logistica fisica (mai dimenticare la definizione di logistica! the physical Internet). Ci ricorda che un porto può essere un soggetto trainante della transizione energetica e che il porto di Trieste ha già chiesto e ottenuto i finanziamenti per il cold ironing, ci ricorda che noi e Capodistria stiamo pensando a un parco in comune di pannelli solari galleggianti, ci ricorda che lo spazio retroportuale può ospitare agricoltura, non solo industria, orti, non solo binari. Stranezze, dirà qualcuno, eccentricità.
Andiamoci piano, nei prossimi numeri della nostra Newsletter potremo fornire dettagli tecnici su questi progetti, visto che di alcuni progetti reali si tratta, non di sogni o miraggi.
Qui vorremmo ricondurre questo discorso a un’altra dimensione, quella del rapporto tra porto e città. Pensiamo alle nostre origini. Da dove veniamo, noi italiani, se non da quella civiltà che è nata dal commercio navale e che ha permesso di abbellire città straordinarie, che ha creato il miracolo di Venezia, l’originalità che ancora ci stupisce di Pisa, di Amalfi? E la Trieste asburgica non è stata la stessa cosa? Città, porto, commerci, assicurazioni, borghesia non sono state un tutt’uno? Trieste non è stata forse, ed in parte lo è ancora, “città della scienza”, “città di scienziati”, grazie alla spinta che veniva dalle esplorazioni navali? È una dimensione questa, del rapporto tra porto e città, che si è andata perdendo, anzi è più frequente sentir parlare di crisi, di attrito, tra porto e città. E là dove il porto è ancora più grande, più invadente, a Rotterdam, a Los Angeles, ad Amburgo, gli attriti possono diventare conflitto aperto.
Quanto la città di Trieste riesca a cogliere il senso del cambio di orizzonte che d’Agostino intende proporre non lo sappiamo, ma sarebbe interessante saperlo e discuterne, prima ancora di sapere se è condiviso o meno. Perché questa è la tematica centrale del nostro tempo.
Siamo tutti convinti che la crisi climatica è reale e non è l’invenzione di dietrologi incalliti, penso, e siamo altrettanto convinti che è irreversibile. Ci sono i negazionisti, certo, ma sembrano ancora in minoranza. Che in futuro la crisi climatica potrà assumere un ruolo centrale e ineludibile se ne sono accorti da tempo quelli che proprio stupidi non sono, gli ultraricchi, gli uomini dell’alta finanza. Sono diventati loro i campioni della sostenibilità. Hanno cambiato il loro approccio alla realtà, hanno introdotto nuovi criteri nella concessione di crediti, hanno attribuito valore a variabili che prima non erano prese in considerazione. Nessuno pensa che tutto questo farà bene all’ambiente, farà bene al portafoglio. Ma a noi qui interessa sottolineare che l’alta finanza ha preso atto che il mondo esterno sta cambiando, che la storia dell’umanità è entrata in una nuova fase. Difficilmente quelli sbagliano. Che il mondo esterno stia cambiando, in maniera traumatica per di più, comincia a prenderne atto un po’ alla volta non solo la politica ma anche la ricerca, anche la cultura corrente, anche la discussione e la comunicazione nello spazio pubblico.
Quindi debbono prenderne atto anche le città portuali, le comunità marittime, che in un certo senso vengono coinvolte prima e più di altre dai cambiamenti, non solo climatici evidentemente, ma anche da quelli dovuti all’organizzazione dell’economia, oltre a quelli dovuti alla follia umana, come le guerre.
Cambiare orizzonte mentale non significa allontanare i rischi, significa essere preparati, in grado di organizzare meglio le difese. Significa ritrovare una spinta interna, una prospettiva propria, e non essere spettatori di un gioco le cui regole ci sfuggono, imbambolati a guardare navi sempre più grandi che vanno e vengono. (S.B.)
Foto i copertina da Pexels – autore Sebastian Voortman