Si è riaccesa, oggi a Trieste, la discussione sulla riqualificazione del Porto Vecchio. Un argomento che riporta in primo piano il rapporto tra la città e il porto, tra l’urbanistica e i commerci. E c’è dentro tutto quello che ha caratterizzato per secoli l’identità di Trieste. Una città dove il passato sembra che non passi mai, un passato al quale si rimane attaccati forse per dimenticare la miseria dell’oggi o forse perché di quel passato si ricorda solo la parte nobile e gloriosa, e ce n’è tanta. Non sembri strano quindi ai nostri lettori se anche noi ci siamo lasciati andare alla memoria di giorni lontani. Perché c’è sempre qualcosa da imparare. Per esempio, sulla leggenda del porto franco.
1719, corte di Vienna. Scrivere le regole di un porto franco o di una qualunque entità pubblica commerciale non era un grosso problema, costruire una città, con le sue strade, le piazze, gli edifici pubblici – nemmeno. Ma costruire una società, un insieme di persone con ben determinate caratteristiche, non individui generici, bensì persone con particolari doti, con talenti specifici, indipendentemente dalla lingua o dalla religione – questa era un’impresa difficile, perché significava indurre una selezione all’interno di gruppi sociali omogenei. Maria Teresa, il suo figliolo co-reggente Giuseppe, i loro consiglieri, sapevano che creare condizioni di particolare favore fiscale non era sufficiente ad attrarre il genere di persone capaci di far emergere dal porto franco di Trieste tutte le sue potenzialità. Erano contrari ad imitare Pietro il Grande, che aveva usato maniere spicce coi nobili per costringerli a insediarsi nella nuova città di San Pietroburgo. L’affluenza di quel tipo di persone nel porto dell’Impero doveva avvenire in maniera spontanea.
Trieste era abitata da nobiltà terriera e relativi fornitori, servitori, gente che viveva di rendita fondiaria e delle sue briciole, viveva di estrazione dell’”oro bianco” dall’acqua marina, e non poteva sopportare l’invasività di un’infrastruttura portuale. I triestini autoctoni erano ostili al porto. Era necessario provocare un’immigrazione. Di che tipo? Di uomini con risorse finanziarie e spirito degli affari. Il “cittadino nuovo” doveva avere il commercio nel sangue, doveva avere la dote di saper moltiplicare il capitale. Certo, sarebbero arrivati anche avventurieri in cerca di fortuna, ma sarebbero stati considerati un male necessario.
Prima dell’anno mille un regolamento sulla riscossione delle imposte parlava già di “legitimi mercatores, id est judei et ceteri mercatores”, ebreo e mercante erano da sempre quasi sinonimi nella cultura occidentale. Dunque, occorreva in qualche modo “adescare” ebrei, ma ebrei ricchi, gente con disponibilità di capitali disposta a prestarli con modesto tasso d’interesse, come quelli che c’erano prima che alla monarchia venisse la pessima idea di espellerli, capaci in 24 ore di mettere insieme prestiti da 50, 100 mila gulden. Maria Teresa non amava affatto gli ebrei, anzi non li poteva sopportare se è vero che, quando ne riceveva in udienza le rappresentanze, stava dietro un paravento per non guardarli nemmeno in faccia. Ma l’importanza di Trieste e del suo porto era troppo alta per persistere in questa avversione. Nel 1753, ventotto anni prima dell’Editto di Tolleranza, la sovrana viene convinta a concedere a un gruppo di ebrei ricchi immigrati a Trieste la libertà di risiedere fuori dal ghetto. Nel 1771 toglie loro l’odiosa Leibmaut una tassa speciale sulla persona che veniva versata al momento di entrare in un’altra città e che, oltre agli ebrei, era inflitta solo ai proprietari di oche e maiali. Di questi privilegi erano esenti però gli ebrei poveri. Anzi, quando gli Ostjuden – provenienti da ambienti rurali, che parlavano yiddish ed erano rigorosamente osservanti delle pratiche religiose – cominciarono ad affluire in massa, dalla Galizia, dalla Bukovina, verso le grandi città dell’Impero, Vienna, Budapest, Praga e giunsero anche a Trieste, vennero allontanati dalla stessa comunità ebraica, che per un po’ di tempo li assisteva, dava loro da dormire e da mangiare, ma poi non esitava a far intervenire le autorità di polizia nei confronti di quelli, i più riottosi, che non volevano andarsene.
Ancor prima degli ebrei, avevano goduto di privilegi speciali i greci ortodossi. Come tutti i levantini, si diceva avessero nel sangue il senso degli affari. Ma i privilegi non riguardavano questioni confessionali bensì di cittadinanza. Erano, infatti, i Greci del primo Settecento, cittadini ottomani e se venivano dalle isole ionie cittadini veneziani. Il loro apporto era indispensabile per i commerci tra l’Impero asburgico e il Levante. I commercianti greci, ortodossi con cittadinanza ottomana, vennero equiparati ai commercianti austriaci e soggetti alle stesse norme daziarie di favore. Arrivarono a Trieste come artigiani molti di loro, barbieri-chirurghi, sarti, aprirono il primo caffè in Piazza Grande, ma quando volevano naturalizzarsi e diventare cittadini austriaci, installandosi definitivamente a Trieste, scattava anche per loro la discriminante di censo: ben accolti se danarosi, restavano Fremden, stranieri, se di modeste condizioni. Nella storia di Trieste svolsero un ruolo importantissimo, negli affari, nella finanza, ed abbellirono la città di alcuni dei suoi palazzi più belli.
Gli “acattolici”, i protestanti delle varie confessioni, luterani, calvinisti, ugonotti, paradossalmente godettero per ultimi, solo alla fine del 1781, quando viene emanato l’Editto di Tolleranza, di libertà di culto, diritti di proprietà, accesso alle cariche civili e accademiche. Quando, in virtù dell’Editto, presentarono istanza per ottenere l’autorizzazione a costruire un loro luogo di culto, il conte von Zinzendorf, governatore di Trieste, appoggiò la loro richiesta ribadendo che lo scopo in definitiva era quello di rendere attrattiva la città per protestanti venuti da fuori a giovamento del commercio (mehrere Protestanten zum Besten des Handels von auswärts herbeilocken).
Questo approccio, cinicamente utilitaristico, toglie un po’ di aura alle gesta dell’Illuminismo giuseppino, ma il figlio di Maria Teresa era davvero una persona di larghe vedute, la sua fede nella tolleranza era sincera: “La parola tolleranza”, scrive alla madre il 20 luglio 1777, “per me vuol dire semplicemente che in tutte le cose puramente terrene riconosco ad ognuno, senza nessuna distinzione di fede religiosa, la facoltà di possedere dei beni, di esercitare un’attività, di essere un cittadino dello stato, se ha le doti per farlo e se ciò giova allo stato e alla sua industria”. Il suo credo, tuttavia, doveva fare i conti con un apparato di governo estremamente conservatore. Anche se la decisione ultima e irrevocabile spettava al sovrano, non erano poche le istanze di controllo che sottoponevano a un vaglio minuzioso ogni suo gesto normativo. Il teologo protestante Gustav Frank, nel primo centenario dell’Editto di Tolleranza, utilizzando documenti d’archivio che purtroppo negli anni del Novecento sarebbero andati distrutti, ha potuto ricostruire minuziosamente il lungo travaglio che ha subito il testo dell’Editto prima della sua emanazione, sballottato tra la Cancelleria di Corte e il Consiglio di Stato. E quando il testo finalmente era pronto si pose il problema piuttosto spinoso di come renderlo pubblico. Avrebbe dovuto essere reso accessibile immediatamente a tutti o solo ai chierici che avrebbero dovuto spiegarlo al popolo, per evitare false interpretazioni e reazioni incontrollate? In quante lingue doveva essere tradotto? In effetti l’Editto provocò un terremoto in molte regioni dell’Impero, non ultimo il Tirolo, e non poche furono le proteste, non mancò qualche rivolta. Giuseppe II era consapevole che la massa andava educata e che il sovrano non doveva minimamente lasciarsi condizionare dall’arretratezza dei suoi sudditi. Il suo interventismo in affari riguardanti non solo l’organizzazione ecclesiastica ma anche la dottrina e il suo insegnamento non si limitava al cristianesimo, ma pretendeva di porre sotto tutela anche altre religioni, come quando cercò d’impedire la diffusione degli scritti di Moses Mendelssohn presso gli ebrei, temendo che diventassero troppo “naturalisti”.
Anche in questa occasione, comunque, Trieste poté vivere una sua “diversità”. Il combinato disposto degli statuti del porto franco e dei privilegi concessi alle comunità etnico-religiose – prima e al di fuori dell’Editto di Tolleranza – crearono quell’atmosfera propizia al diffondersi dello “spirito del capitalismo” che Max Weber attribuisce in particolare alla cultura protestante e che John Maynard Keynes caratterizza come animal spirits.
Sì, Trieste è stata una città multietnica e multiconfessionale, ma in realtà tutti quegli immigrati di tante diverse religioni avevano un unico Dio: il dio denaro. (s.b.)
Fonti: Gustav Frank, Das Toleranzpatent Kaiser Joseph II. Urkundliche Geschichte seiner Entstehung und seiner Folgen, Vienna 1882. Elio Apih, Trieste, Bari 2015. Tullia Catalan, La Comunità ebraica di Trieste (1781-1914), Trieste, 2000. Olga Katsiardi-Hering, La presenza dei Greci a Trieste, Trieste, 2018.