La crisi del Mar Rosso conferma quanto il mare e i vettori marittimi siano necessari all’economie del mondo, dando la cifra della profonda relazione tra globalizzazione e sviluppo. Il conflitto, mai risolto, tra sionismo e palestinesi deflagra sul mondo attraverso il mare, divenendo questione globale. Gli Houthi hanno deciso di attaccare le navi commerciali di proprietà o con carico israeliano per ottenere il ritiro dell’assedio militare dalla Striscia di Gaza. Una linea poi estesa anche alle navi statunitensi e britanniche, dopo le risposte militari angloamericane contro i siti yemeniti degli Houthi, che indubbiamente hanno alzato l’asticella del rischio escalation, portando alla fuga altre navi civili.
L’economia israeliana è fortemente dipendente dagli scambi commerciali marittimi, ma la strategia Houthi ha anche una valenza politica importante, che mostra una evoluzione delle alleanze nell’area mediorientale tra Hamas, Hezbollah e Houthi, che innalza il peso politico di queste tre formazioni nelle relazioni internazionali, che non può essere ignorato dalle negoziazioni diplomatiche.
Il caos generale prodotto nel sistema internazionale di collegamento marittimo ora ha l’estrema necessità di una forte accelerazione diplomatica di pace, dettata non solo dalla sofferenza dei rifornimenti in un contesto peraltro già recessivo, ma anche dalla crisi climatica, che riducendo l’operatività del Canale di Panama, ha reso Suez-Mediterraneo la via marittima più breve per raggiungere dall’Asia anche il versante est delle Americhe, e molto insidiosa la circumnavigazione dell’Africa, per le dure condizioni meteorologiche.
Anche la situazione economica e sociale israeliana, dopo la decisione del governo di assediare Gaza, si deteriora di giorno in giorno. Salgono le proteste di dissenso delle scelte politiche dei vertici e i media riportano notizie di frattura all’interno della compagine governativa, per il radicalismo di Benjamin Netanyahu. Nel contempo, sono crollati gli investimenti esteri, fuggiti dal paese con l’inizio della guerra, a cui si aggiungono l’impennata dei costi/prezzi, lo spolpamento sociale dovuto al richiamo militare dei riservisti, e il ridimensionamento degli incassi erariali. Da un surplus dello 0,6% nel 2022, il bilancio israeliano 2023 è passato a un deficit del -4,2% (dato Ministero delle Finanze), precipitato in pochi mesi per la guerra a Gaza, che da stime ufficiali dovrebbe raggiungere la spesa di ben 58 miliardi di dollari.
Un quadro insostenibile, se si tiene conto che il mondo arabo, profondamente colpito dall’assedio di Gaza, non è più quello del secolo scorso, ma è un insieme di Stati in crescita, alcuni con disponibilità di capitali e armamenti.
In questo quadro preoccupa – in particolare per il porto di Trieste – la tensione che inevitabilmente si sta creando tra Israele ed Egitto, tuttora considerato da esponenti israeliani “il pericolo maggiore per Israele”, sul controllo del Corridoio Philadelphia, al confine tra Egitto e Striscia di Gaza. Tensione aggravata dall’ammassarsi di un milione circa di persone cacciate dalla Striscia di Gaza. La prospettiva di essere invasi da questi profughi non deve esser tanto gradita ai governanti egiziani. Se a questo si aggiunge che certi rappresentanti di Israele non hanno timore di parlare apertamente d’impiego dell’arma nucleare, la prospettiva che la crisi di Suez diventi qualcosa di più drammatico sembra plausibile.
Mentre il conflitto si aggrava nella parte sud di Gaza, a El Dabaa, sulla costa settentrionale egiziana, si è svolta la cerimonia del getto di cemento per il quarto e ultimo reattore della centrale nucleare di tecnologia russa, alla presenza del presidente russo Vladimir Putin e del presidente egiziano Abdel Fattah El-Sisi.
Dal 1° gennaio scorso, l’Egitto è anche membro effettivo del gruppo BRICS, insieme a Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Iran e Arabia Saudita. Questi ingressi cambiano le prospettive classiche di forte conflitto tra Iran e Arabia Saudita, che peraltro hanno iniziato un percorso di pace “indiretto”, mediato dall’Oman, che ha portato a un negoziato di pace tra gli Houthi e l’Arabia Saudita, che appoggia il governo yemenita sunnita, in guerra sanguinosa dal 2015.
Alleggeriti sul fronte interno, gli Houthi sono diventati più aggressivi all’esterno. Essi sono solo la punta di una tensione molto profonda, e servirà a poco la loro designazione come organizzazione terroristica globale da parte del Dipartimento di Stato americano, in vigore dal prossimo 16 febbraio. Solo una pace profonda, scevra da propagande e manipolazioni, può mettere al sicuro la navigazione commerciale internazionale e con essa lo sviluppo economico e sociale del mondo.
Detto questo, a noi sembra alquanto sconcertante l’estrema drammatizzazione del blocco di Suez da parte dei media italiani e in particolare il grido di allarme che viene lanciato perché i porti del Nord sarebbero in grado di trarre vantaggio dalle nostre difficoltà.
Innanzitutto, se c’è qualcosa di cui preoccuparsi è la stagnazione intrinseca dell’economia e della portualità italiane, indipendentemente dagli shock esogeni. Non sono tanto questi quanto le decisioni di certi gruppi multinazionali di smantellare la loro presenza in Italia a metterci in difficoltà (anche Trieste ne sa qualcosa), sono la continua erosione del salario di dipendenti pubblici e privati creata dal fatto che, pur in presenza di un’alta inflazione, almeno il 50% dei contratti nazionali di lavoro sono scaduti da più di tre anni (dati CNEL) e non vengono rinnovati, sono i 5,6 milioni di persone che vivono in condizione di povertà (dati ISTAT), sono l’evasione fiscale dovuta più che all’IRPEF al lavoro irregolare (Rapporto sull’economia non osservata, 2023), senza parlare delle decine di crisi aziendali che stanno da tempo sui tavoli del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, minacciando l’esistenza di migliaia di famiglie italiane.
Nei porti italiani “il traffico gateway è ormai da anni stabile a ridosso dei 7,5 milioni di Teu” – titolava Shipping Italy un paio di settimane fa. Da anni la nostra portualità non riesce a schiodarsi dai “consueti” 11 milioni di TEU, transhipment compreso. È un indicatore che rispecchia fedelmente lo stato di un paese che Pierluigi Ciocca, per anni alla direzione dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia, ha definito “il caso limite di una economia un tempo brillante divenuta improduttiva”. Un paese, per dirla con l’ultimo rapporto Censis (dicembre 2023) “di sonnambuli, ciechi dinanzi ai presagi”.
In questa situazione, gridare al pericolo che i porti del Nord ci possano “rubare” i traffici (vecchia litania che ritorna), approfittando della crisi di Suez, è quanto di più banale si possa oggi immaginare. I porti del Nord hanno problemi ben più gravi di quelli cui potrebbero rimediare “rubandoci” un po’ di traffico. In particolare, i porti della Germania, collocati all’interno di corsi fluviali sempre più a rischio siccità. Per non parlare poi della difficile situazione dell’economia tedesca in quanto tale, vittima di politiche energetiche avventate e di scelte sbagliate di politica industriale, fattori endogeni dunque.
Siamo tutti nella stessa barca, cerchiamo di darci una mano, di fare sinergie. Trieste e Amburgo sono agli estremi di un unico corridoio, che dobbiamo concepire e attrezzare come un unico mercato. Per questo la danese DFDS e l’anseatica HHLA hanno investito sulle nostre banchine. A loro il compito di allargare il raggio d’azione al Mare del Nord e al Baltico, a noi quello di allargarlo al Mediterraneo e al Mar Nero. Non ci sono alternative.
Giovanna Visco, Sergio Bologna
Foto di copertina: marineregulations