Politiche portuali e industriali

14,5 miliardi di euro pare abbia sborsato il gruppo danese DSV per acquisire DB Schenker dalle ferrovie tedesche. E dire che in origine DSV era un qualcosa che somigliava a una cooperativa di padroncini. Oggi sono un colosso europeo e forse di più. A chi è vecchio del mestiere viene da pensare a quanti soldi lo stato italiano ha buttato via per favorire l’aggregazione tra imprese di autotrasporto in modo da superare la polverizzazione, es. con la legge n. 68 del 12.02.1992 cui seguì, con decretazione d’urgenza, il famigerato bonus fiscale, per cui l’Italia fu condannata dalla Corte di Giustizia europea e dovette rimangiarselo. Risultati? Zero.

Vengono alla mente queste cose a sentire certa gente oggi – anche leader politici – che parla di “politiche industriali”. Forse dimentica che le ultime politiche industriali le ha fatte Enrico Mattei negli Anni Cinquanta, dopo di lui quelle che venivano chiamate così erano regali che lo stato faceva a certi gruppi privati. Sono stati costruiti con soldi pubblici nel Mezzogiorno interi impianti industriali mai entrati in funzione. Gli incentivi per l’aggregazione delle imprese di autotrasporto se li sono mangiati le associazioni di rappresentanza. Finalmente, dopo le grandi privatizzazioni, nessuno ha avuto più il coraggio di usare il termine “politica industriale”. Per decenza.

Oggi quando si parla di politiche portuali o di politiche per la portualità, argomento più interessante del cosiddetto “totonomine” che si gioca per le Presidenze delle Autorità di sistema, si dovrebbe tenere a mente la vicenda delle “politiche industriali” perché sono la stessa cosa. La politica per la portualità è (dovrebbe essere) un capitolo di una più generale politica industriale, che a sua volta è una delle scelte strategiche più importanti che un paese può fare. Questa scelta l’Italia non sa nemmeno cosa sia da almeno mezzo secolo a questa parte. La privatizzazione dei porti di cui si parla, se il governo deciderà di farla, visto che deve fare cassa, sarà solo il coerente epilogo di una politica portuale che non è mai esistita. I governi hanno semplicemente dato soldi a pioggia per fare infrastrutture, per dragare fondali e allungare banchine, che magari poi si scopre utilizzate al 30/40%. Trieste per un certo periodo, grazie a D’Agostino, è parsa un’eccezione, perché almeno realizzava una politica di mercato europeo che nessun altro porto italiano sa praticare, a cominciare da Genova.

Adesso chissà come, chissà perché, su Trieste si concentrano attenzioni che la proiettano su scenari geopolitici da vertigine e qualche poveretto si monta la testa e ci crede. Trieste ombelico di chissà quali creature geopolitiche? Una città che in trent’anni non è riuscita a immaginare un’area da 65 ettari, il Porto Vecchio, dove fare quello che molte città portuali hanno fatto, con progetti che hanno cambiato il volto, la skyline della città, pensiamo a Londra, antesignana coi suoi Docklands, pensiamo ad Amburgo con la Speicherstadt, con la Hafencity, ma poi tante altre da Lisbona a New York. E dopo trent’anni Trieste finalmente scopre la vocazione urbana del Porto Vecchio: condomini, pizzerie, palestre e movida…non sembra molto innovativo e soprattutto con una visuale piuttosto modesta se paragonata alle prospettive planetarie che qualcuno auspica (o minaccia) per Trieste. Il nostro suggerimento è di tenere i piedi per terra, di guardare i numeri, consapevoli però che certe direttrici internazionali Est-Ovest stanno cambiando in maniera irreversibile. Per questo parliamo di Middle corridor. Il porto, in un’ideale catena origine-destino, ha sempre avuto tre bacini di riferimento, quello che s’imbuca nel Canale di Suez, quello dell’area Mar Nero e quello dell’area centro-europea. Purtroppo, è quest’ultimo a dare le maggiori preoccupazioni. (Sergio Bologna)